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USA: Il potere dietro le quinte delle presidenze Biden e Trump

USA: Il potere dietro le quinte delle presidenze Biden e Trump - ilgraffio - Monica Macchioni

Nathan Pinkoski, un nome che sembra uscito da un film hollywoodiano per adolescenti, invece è un politologo famoso e direttore della ricerca presso il Zephyr Institute, noto per il suo […]

Nathan Pinkoski, un nome che sembra uscito da un film hollywoodiano per adolescenti, invece è un politologo famoso e direttore della ricerca presso il Zephyr Institute, noto per il suo approccio filosofico e critico alla politica contemporanea.

Le sue analisi esplorano il declino dell’autorità politica tradizionale e il ruolo sempre più predominante della tecnocrazia.

Recentemente, ha suscitato dibattito con una riflessione pungente sull’amministrazione Biden, che ha definito un “simulacro” di presidenza, offrendo un confronto implicito con la presidenza Trump e il suo ritorno sulla scena politica.

Secondo Pinkoski, l’amministrazione Biden rappresenta un modello di governance che si allontana dall’idea tradizionale di un leader autonomo. Egli descrive un sistema in cui il potere è delegato a una rete di consiglieri, con Biden relegato a un ruolo simbolico, quasi scenografico.

Questa “non-presidenza,” come lui la definisce, ha funzionato attraverso una gestione meticolosa delle informazioni e una simulazione di processo decisionale, in cui il vero controllo risiede in una macchina amministrativa tecnocratica.

Pinkoski solleva interrogativi provocatori sulla leadership moderna: quanto spazio resta, nelle democrazie avanzate, per un presidente come figura centrale e autonoma? In un contesto dominato dalla complessità – dalla pandemia al cambiamento climatico – il modello collettivo e delegante dell’amministrazione Biden potrebbe essere visto non solo come una necessità ma persino come un adattamento strategico. Tuttavia, Pinkoski critica questa dinamica, dipingendola come una vittoria delle oligarchie tecnocratiche, che avrebbero privato il leader della sua capacità decisionale diretta.

Ma cosa succede se spostiamo lo sguardo sull’altro lato del dibattito? Pinkoski ha lasciato intendere che anche la presidenza Trump potrebbe non essere immune da tali influenze. Sebbene Trump si sia presentato come l’anti-establishment, un outsider in grado di spezzare i meccanismi di potere consolidati, è lecito domandarsi quanto sia stato realmente autonomo.

Alcuni critici hanno suggerito che anche Trump, come Biden, abbia agito come un burattino nelle mani di interessi oligarchici, seppur mascherati da un populismo più visibile e rumoroso.

Durante la sua prima amministrazione, Trump ha promosso politiche di taglio alle tasse, deregolamentazione e protezionismo economico, che hanno beneficiato principalmente le élite economiche e corporative.

Nonostante la sua retorica anti-globalista, i legami con figure potenti del settore finanziario e industriale hanno alimentato il sospetto che il suo governo non fosse così distante dal controllo delle oligarchie. Il ritorno di Trump come presidente – o meglio, come leader di un movimento populista – potrebbe seguire un copione simile, dove la figura carismatica copre una struttura di potere ben radicata e meno visibile.

La domanda diventa allora ancora più ampia: quanto spazio resta, nell’era della complessità, per un presidente veramente autonomo?

Se Biden rappresenta un futuro di governance collettiva e tecnocratica, Trump potrebbe incarnare una nostalgia di leadership forte e individualista, ma con le stesse catene invisibili che limitano il reale potere decisionale.

Il confronto tra queste due figure – così diverse nella forma ma potenzialmente simili nel contenuto – sottolinea una crisi più profonda nelle democrazie occidentali: il mito del presidente onnipotente sta cedendo il passo a una realtà in cui il potere è frammentato, delegato e nascosto. Trump 2 sarà davvero libero di decidere, o resterà intrappolato nelle stesse dinamiche che hanno caratterizzato la “non-presidenza” di Biden?

Questa riflessione ci costringe a interrogarci non solo sul futuro della politica americana, ma anche sull’idea stessa di democrazia rappresentativa, dove il leader rischia sempre più di essere solo un volto, mentre le decisioni reali sono prese altrove.

Ivo Mej