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Autodeterminazione dell’identità

Letizia Bonelli Autodeterminazione dell'identità - ilGraffio - Monica Macchioni

Di Letizia Bonelli Il nome che scegliamo. Il diritto di non essere chiamati per forza come ci hanno scritto all’anagrafe Alias, pseudonimi, nickname. Non sono maschere. Sono pelle sottile. Difesa […]


Di Letizia Bonelli

Il nome che scegliamo. Il diritto di non essere chiamati per forza come ci hanno scritto all’anagrafe

Alias, pseudonimi, nickname.

Non sono maschere.

Sono pelle sottile.

Difesa e verità.

Un altro modo di dire: “Eccomi, ma alle mie condizioni.”

Ci sono nomi che ci vengono dati.

E poi ci sono nomi che ci scegliamo.

Quelli che non stanno su una carta d’identità, ma ci somigliano di più.

Quelli che nessun ufficiale di stato civile potrà mai cogliere.

Sono alias, nickname, pseudonimi. E spesso valgono più del codice fiscale.

Perché in rete e nella vita non siamo solo chi ci hanno registrato.

Siamo chi abbiamo il coraggio di diventare. Anche con un nome diverso.

Questa non è una rivendicazione da adolescenti in cerca di ribellione.

È una questione di dignità, di sicurezza, di identità profonda.

Un alias non è un inganno.

È un riparo.

È un ponte tra quello che siamo e quello che possiamo essere senza doverci giustificare.

Viviamo tempi strani, in cui ci viene chiesta trasparenza assoluta.

Mostrati.

Espòrtati.

Firma tutto con nome e cognome.

Ma la trasparenza, se imposta, smette di essere virtù e diventa pretesa.

E allora ci ritroviamo divisi tra due desideri opposti:
quello di apparire riconoscibili, per esistere nel mondo digitale…
e quello di restare invisibili, per proteggere ciò che abbiamo di più fragile.

E se ci pensiamo, da sempre l’umanità si è servita di nomi altri:
Scrittori con pseudonimi.

Artisti con nomi d’arte.

Donne e uomini che, per sopravvivere o per parlare liberamente, hanno dovuto smettere di firmarsi col proprio nome.

Oggi, nel digitale, questa antica abitudine prende nuova forma.

Il nickname diventa la versione pubblica del nostro silenzio.

Un modo per esserci, senza doverci esporre.

Un modo per parlare, senza diventare bersaglio.

C’è chi usa un alias perché ha paura.

Chi lo fa per gioco.

Chi per non essere trovato da un passato che morde.

Chi perché nel proprio nome non si è mai riconosciuto.

E ognuno ha diritto a essere creduto sulla parola… anche se quella parola è un nome inventato.

Chi sei tu per dire come devo chiamarmi?

Chi sei tu per dire che esisto solo se ti dico tutto di me?

La privacy, quella vera, non è solo la protezione dei dati.

È la libertà di dire “non ti riguarda” senza sentirsi colpevoli.

Ed è in questa zona grigia tra obbligo d’identificazione e diritto alla riservatezza che si gioca una delle battaglie più intime della nostra epoca
quella per il diritto a chiamarsi come si vuole, a non dover usare per forza il nome che altri ci hanno messo addosso.

Certo, ci sono regole.

C’è il confine sottile tra protezione e truffa, tra diritto e abuso.

Nessuno lo nega.

Ma oggi serve una nuova grammatica giuridica e culturale, capace di dire che non tutto ciò che è “vero” è più giusto, e non tutto ciò che è “falso” è disonesto.

Perché un alias, a volte, dice di noi molto più del nostro nome reale.

E finché ci sarà chi giudica la verità solo con il timbro dell’anagrafe,
ci sarà bisogno di ricordare questo: la dignità non è un documento.

È uno spazio interiore.

È la possibilità di dirsi al mondo con le parole che si scelgono,
e non solo con quelle ricevute